Do agents have too much power?
mainItaly’s Corriere della Sera yesterday published a full-page essay on classical agents, taking as its starting point some remarks we shared on Slippedisc.com about the recent retirement of Martin Campbell-White and Robert Rattray from AskonasHolt.
The article, by PierLuigi Panza has unfortunately not been published online. However, the author has given us permission to reprint his Italian text below. If you don’t read Italian, Google may help.
One caveat: In remarks about the relations between agencies and Italian theatres – ‘too intimate, and sometimes corrupt’ – I may have been misunderstood. I referred specifically in the interview to certain Italian agencies, not foreign ones.
Tensioni dietro le quinte della lirica «Agenti delle star, troppo potere»
L’accusa: cachet gonfiati. La replica: tanti teatri inadempienti. Autodifesa «Il costo degli interpreti incide solo per il 15-16% sui bilanci dei teatri. Alcuni non rispettano gli impegni o non pagano in attesa dei soldi pubblici»
Di Panza Pierluigi
MILANO — Nei giorni scorsi, la medaglia di Member of the Order of the British Empire per meriti musicali è stata assegnata agli agenti Martin Campbell-White e Robert Rattray della Askonas Holt, una delle maggiori agenzie del mondo. Sul suo sito www.slippedisc.com il celebre musicologo Norman Lebrecht ha stigmatizzato questa assegnazione, confortato da un largo seguito di commenti. «Bisognerebbe premiare chi ha fatto qualcosa per il genere umano, non per il profitto. Il ruolo degli agenti era di facilitare; oggi, invece, è quello di ostruire». La loro crescita, racconta al Corriere Lebrecht, «è iniziata 25 anni fa, in un momento in cui due o tre agenzie hanno incominciato a esercitare troppo potere, gonfiando le commissioni a un punto che il mercato non poteva più sopportare. Oggi, è vero, sono meno potenti, ma non meno dannose. Alcuni agenti sono utili, altri credono di poter attivare o disattivare i rubinetti». E se l’accusa è alle grandi agenzie, come la Askonas, «i rapporti tra agenti e teatri italiani sono ancora più intimi e, a volte, corrotti», afferma.
Insomma, è in discussione il ruolo degli agenti, che è ben lontano da quello che rivestivano nell’Ottocento quando un Bartolomeo Merelli si gloriava di aver portato Donizetti e Verdi alla Scala. La diatriba sugli agenti musicali in Italia ha una data d’inizio, il 1967, quando la legge 800 li mise al bando. Fu riconsentito loro di operare dal ‘79 e, dal 2008 (legge 112), la loro figura è stata equiparata a quella dei procuratori. Ma continuano a essere in discussione. Ai tempi dei megaconcerti di Carreras, Domingo e Pavarotti a Caracalla (1990) furono accusati di «voler solo fare business». Nel terremoto che investì la Scala nel 2005 (che portò alle dimissioni di Riccardo Muti) si parlò dell’invadenza del procuratore monegasco Valentin Proczynski. Nel luglio 2013, nel difendere Un ballo in maschera di Michieletto, l’economista Michele Trimarchi scrisse che «ne sistema mummificato della lirica pesano gli interessi delle agenzie». Recentemente, su corriere.it, il baritono Pierluigi Dilengite ha parlato di «casta della lirica» in cui «la maggior parte dei cantanti che passa un’audizione proviene dalle agenzie», aggiungendo che le «tre agenzie Stage door, Atelier musicale e Opera art hanno in mano il monopolio dei 13 enti lirici italiani».
Ma sono davvero così potenti le agenzie musicali? In Italia non esiste un loro registro. L’Aricas, la loro associazione costituita nel 1981, ne raduna 17 e si è dotata di un codice etico dove si fissano criteri di indipendenza e correttezza. I problemi che evidenzia questa associazione sono la massiccia presenza di agenzie straniere nel nostro Paese (che godono di benefici fiscali), l’assenza di un registro degli agenti e l’allarme sui «teatri lirici che non pagano».
«Non capisco le polemiche. Sembra che siamo una banda Bassotti che va a puntare la pistola alla tempia. Saremmo tutti ricchi!», racconta Raffaella Coletti, agente e consigliere dell’Aricas. «Non è così. Esiste complicità. Noi non imponiamo niente». Pacchetti chiusi? «Possiamo proporre un artista minore assieme a un grande, sta all’altro rifiutare — dicono sia Coletti che Giovanni Oldani di Music Center Domani —. Il punto è la credibilità dei teatri». Le agenzie italiane sono piccole, il proprietario è lo stesso agente che cura agenda e contratti. Un tempo si dividevano tra chi seguiva orchestre e direttori e chi i cantanti. Ora tutti fanno tutto; c’è chi rappresenta 10-15 artisti, chi 150. All’estero le agenzie sono colossi che radunano centinaia di artisti, come la londinese Askonas Holt (Mehta, Rattle, Alagna, Antonacci…) e le americane IMG Artist (Bychkov, Jurowski, Pappano…), Cami (Gatti, Gergiev, Levine…) o quelle del gruppo Universal come la CSAM (con Netrebko e Damrau).
Sono le agenzie a far lievitare i prezzi nella lirica? «Non credo — dice Oldani —. Anche perché il costo degli interpreti incide per il 15-16% sui bilanci dei teatri». In Italia, inoltre, i cachet massimi sono fissati per legge (DL 28 marzo 2006): 17 mila euro per cantanti e direttori (a cui si aggiunge un 20% per chiara fama); 25 mila euro per direttori e solisti nei concerti; ma li prendono pochissimi. Oggi il cachet massimo si aggira intorno ai 10 mila euro, e agli agenti va il 10%. Ad averli! Perché, racconta la Coletti «con i teatri stranieri si riesce a programmare e a venir pagati; con gli italiani… ti rimandano il contrato firmato una settimana prima, alcuni non lo rispettano e alcuni non pagano o lo fanno in ritardo. Molti artisti devono fare decreti ingiuntivi». Circa il 40% dei cantanti lamenta insolvenze.
La difesa dei teatri è ovvia: se i finanziamenti arrivano in ritardo vengono effettuati in ritardo. Alcuni teatri, però, negano agli agenti persino i biglietti per seguire gli artisti, segno che non sono temuti. Per Francesco Saverio Clemente di In Art, «la demonizzazione degli agenti è sciocca. Molti di noi hanno un grado di professionalità elevatissima. Ciascuno ha rapporti di maggiore o minor fiducia con alcuni interlocutori, ma questo sta nel gioco dei ruoli». Come sono questi rapporti? «Ci si trova a consigliare un giovane che il teatro non conosce. Quando si tratta di grandi artisti sono i teatri a chiederti di avere periodi liberi, idee di progetti. Poi ci sono alcuni sovrintendenti che hanno idee chiare. Pereira, come Lissner, sono uomini di personalità, che trattano con gli artisti personalmente. In quei casi noi diventiamo solo esecutori». Solo i piccoli teatri sono un po’ succubi degli agenti che, per altro, hanno lanciato interpreti come Daniela Barcellona, Maria Agresta, Francesco Meli… «Oggi — aggiunge Lorenzo Baldrighi della Baldrighi Artists Management — il ruolo di un’agenzia è quello di informare puntualmente la dirigenza di un teatro sulle qualità e lo stato di carriera di un artista».
Ma un conto sono i cachet fissati per legge in Italia, un conto quelli compositi (massimo di legge, più chiara fama, più sponsor, più sostegno di case discografiche) per gli interpreti più richiesti. Quelli compositi, utilizzati per attirare artisti che altrimenti in Italia non vedremmo, nessuno li riferisce. Cecilia Bartoli ha richieste ampiamente sopra il cachet di legge: si favoleggia di 60-80 mila euro a serata. Quindi o canta all’estero (dove non dovunque si guadagna di più, di certo in America) o si fa un cachet composito. Anche Lang Lang per una serata può addirittura raggiungere, si dice, tra i 50 e i 100 mila euro e i grandi direttori (Myung-Whun Chung, Chailly, Barenboim, Muti…) hanno cachet di 25 mila euro sul mercato domestico ma più alti all’estero. Per un recital fuori dall’Italia gli interpreti più richiesti, come Kaufmann o la Netrebko, superano i cachet imposti dalla legge italiana.
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